operatore don’t cry

INTRODUZIONE  Due righe per chiarire il senso di questo scritto. In anni di collettivo abbiamo incontrato  persone legate al circuito psichiatrico in varie maniere, dal reparto ospedaliero, alle case famiglia o centri diurni, fino alle vere e proprie strutture residenziali.Le testimonianze della vita all’interno di una struttura, salvo rari casi e a posteriori, provengono per la maggior parte dai racconti degli operatori, alcuni membri del collettivo stesso, altri persone conosciute nel corso del tempo. Per questi motivi, ci preme portare avanti una riflessione sull’importanza del ruolo che può assumere chi lavora nel settore psichiatrico e su come un modo di porsi, piuttosto che un altro, possa contribuire a cambiare, sia la semplice quotidianità dell’utente, sia i dispositivi che costituiscono la struttura di cui fa parte.Ci sembrava doveroso, vista l’attuale condizione del terzo settore, ormai subordinato completamente a logiche di profitto, di interessi elettorali e di puro controllo sociale, rompere il silenzio, per non lasciare da solo chi usufruisce dei servizi e chi vi lavora…La differenza  all’interno di organizzazioni operanti nel sociale fra chi è preposto al controllo e chi lo subisce si basa sulla storia personale degli individui, sulla loro fortuna o meno e sulla loro capacità  di non deviare da quelle  linee di comportamento che, nella nostra società, caratterizzano una persona integrata ed esente da “patologie mentali”. Pensiamo solamente a quanto potrebbe attualmente essere diversa la nostra esistenza se fossimo nati dall’altra parte del mondo: reclusi in un cpt, morti senza nome in un cantiere edile, vendute a qualche pappone o in fuga da una guerra.. lo stesso principio di casualità regola la nostra stabilità emotiva e la capacità di mantenerla, come d’altronde, la nostra posizione sociale.Tutto questo discorso deriva da ciò che pensiamo dovrebbe essere il “sociale”: una zona temporanea di transito in cui non si “prende in carico” la persona, ma ci se ne prende cura, avendo come obiettivo non la sua conformazione sociale , ma la sua autoderminazione e il suo benessere. Un agire non pregiudiziale da parte degli operatori è l’unico modo per incrinare l’immobilità del dispositivo psichiatrico,dal momento che la quotidianità di una struttura é data da chi la attraversa.Il migliore operatore è quello che sa rendersi inutile!              

OPERATORE DONT CRY: UN POSSIBILE SENSO COMUNE AL NOSTRO OPERARE

 Spesso nelle riunioni a cui partecipiamo (là dove ancora vengono fatte) ci viene sottolineata la valenza fondamentale del gruppo e l’integrazione dei saperi in riferimento alle diverse figure professionali, come se questo fosse un fatto che si sviluppa da sé.Nelle varie figure che abitano il sociale sussistono competenze con mansionari diversi che difficilmente possono integrarsi (cosa hanno in comune uno psicologo e un infermiere, un educatore e uno psichiatra, un assistente sociale e un operatore socio sanitario o assistenziale?). Ebbene esiste uno “strumento” che pone ogni operatore del nostro settore, a prescindere dalla qualifica professionale, come trasversalmente competente rispetto al lavoro con gli ospiti di qualsiasi struttura: l’ascolto.L’ascolto é ciò che valorizza la parola di chi versa in condizione di criticità psico-fisico-sociale, poiché il silenzio accorto di chi ascolta restituisce, almeno in parte, i contenuti del discorso (lamenti, deliri,ecc) di chi é ascoltato al fine di renderlo cosciente e responsabile, in modo non intrusivo e non direttivo, del suo dire e agire. Quindi questo strumento mostra a chi parla l’importanza della sua parola, operando una prima manovra essenziale della cura; non è l’effetto rapido quello che si causa, ma attraverso la parola si dà la possibilità a chi si trova in difficoltà  di incontrare la fissità della sua ripetizione, consentendo così un primo sblocco.L’ascolto inoltre strappa il rapporto tra operatore e utente all’assistenzialismo e alla passività, ponendo le basi di una relazione diversa, in cui l’utente non é più solo vittima non cosciente del suo lamento- delirio, ma ne è anche responsabile non colpevole, poiché é  quella inconsapevolezza che l’ascolto vuole colpire. Ma la realtà  all’interno del lavoro sociale, nel quale abbiamo deciso di impegnarci oltre che impiegarci, ha sempre più a che fare con il discorso medico/psichiatricoche fonda la cura sul farmaco e su una base fenomenologica e osservativa.La riduzione della psiche a cervello, epitaffio tombale che sancisce la morte del soggetto umano sulle forche caudine della psichiatria positivista, condensa patologicamente in sé il trionfo dello psicofarmaco per ogni evenienza in barba ai rapporti umani tra esseri senzienti.  La logica psichiatrica, si configura falsamente come criterio neutro, ma di fatto é al servizio delle case farmaceutiche che fanno degli utenti dei nostri servizi galline dalle uova d’oro. Il metodo medico/osservativo che indaga i processi mentali é limitante, poiché interpreta  comportamenti e cognizioni come sintomi di patologie, misconoscendo il  potere introspettivo e analizzante della parola. Questa metodologia coglie il fenomeno nella sua frazione minimalista, ma non il soggetto nella sua complessitàOgnuno di noi può essere un buon operatore, se accosta alle capacità personali e professionali un  ascolto effettivo, non pregiudiziale. Altrimenti  il tempo per noi operatori non sarà altro che attesa di burn-out, categoria anche questa necessaria ai criteri dominanti del terzo settore  per coprire  le proprie carenze formative e strutturali.   OPERATORI SOCIALI O “EDUCATORI EMBEDDED” AL SISTEMA PSICHIATRICO? (“embedded” cioè incassare, inserire; termine usato per i giornalisti di guerra americani ai quali vengono somministrati programmi psicologici/abilitativi alle logiche di guerra che non prevedono il contraddittorio e la divulgazione di notizie scomode)  Il mestiere dell’educatore/operatore sociale nasce e si sviluppa, in particolare, negli anni ’70 quando il sistema prevalente di educazione scolastica e professionale viene messo in crisi dagli sconvolgimenti causati dai moti del decennio precedente.Nel 1978 Basaglia sferra un duro colpo alla cultura psichiatrica, attraverso la legge 180, aprendo i reparti e denunciando le orrende condizioni di vita degli internati. Questo fu un primo passo di cui non neghiamo l’importanza, ma ci preme ricordare che da ormai più di quarant’anni non solo siamo fermi, ma stiamo regredendo molto rispetto ai presupposti dello spirito basagliano.Prima di tutto, la legge 180 ha il limite di non intaccare ciò che sta alla base del cosiddetto pregiudizio psichiatrico: si continua a considerare gli utenti dei “malati di mente”, la psichiatria organicista come l’unico metodo di cura valido e una reale possibilità di autonomia e reinserimento della persona nella vita sociale è ancora un lontano miraggio.E’ vero infatti che i manicomi sono stati smantellati, nel senso che non vengono più ricoverate altre persone,ma molti degli internati rimangono ancora oggi tali, perchè le case- famiglia, teoricamente strutture intermedie fra l’ospedalizzazione e la libertà,sono pensate e gestite in modo tale che nessuno riesce a svincolarsi e a vedere un termine a questo percorso.Permane inoltre, il trattamento sanitario obbligatorio, procedura che dovrebbe essere d’urgenza, ma che viene applicata troppo spesso in tutta quella serie di situazioni che poi diventano la normalità e la norma. Come abbiamo già detto, farmaci e procedure d’urgenza coercitive sopperiscono ad una buona qualità del lavoro sociale: senza una relazione di cura le persone vengono contenute fino al ripetersi della “crisi” successiva, cui si risponderà con gli stessi mezzi, avviandole così ad un percorso di cronicizzazione senza fine.“Perciò la critica va portata alla radice, al giudizio psichiatrico.Infatti, definire malata di mente  una persona implica che tutto quello che fa, dice,sente, viene considerato privo di senso.L’uomo privato della produzione di senso e dell’attribuzione di responsabilità non esiste più.In un mondo dove ognuno è solo con il proprio dolore.” ( G.Antonucci,”Critica al giudizio psichiatrico”).L’essere umano é caratterizzato dalla sua unicità e irripetibilità, dall’essere soggetto all’incertezza, dal suo costante divenire. E sono proprio queste peculiarità umane a costituire un ostacolo all’esigenze della scienza che, per suo statuto, ha bisogno di dati certi ,verificabili, ripetibili.Per questo motivo, quando le necessità del discorso scientifico vengono applicate alla persona si configurano sempre come perverse, rendendo i soggetti cavie da laboratorio.Il risultato é che ogni specificità viene appiattita e qualità propriamente umane, quali la tolleranza alla diversità,  la creatività, l’immaginazione vengono annientate dall’ottusa necessità di adeguazione e bieca uguaglianza.Su quest’ultimo punto si gioca il fattore differenziale tra quegli operatori che  si adeguano al sistema, strutturando il proprio agire “educativo” in conformità alle esigenze dominanti, e chi, invece, cerca le forme possibili per sottrarsi a queste esigenze (strategie etiche).Lavorare così , sul filo di lana, tra il mansionario che non lascia spazio e il desiderio che sentiamo nel nostro lavoro di tessere reti di relazioni funzionali agli ospiti e non all’azienda, può causare ripercussioni per ognuno, che vanno dal burn-out, all’angoscia, fino alle varie forme di crisi di panico.Questi effetti che la psicopatologia attribuisce, con leggerezza mirata, a derive mentali, sono in realtà forme di eccesso di adattamento al discorso imperante poiché costringono, attraverso una mancanza di coscienza di ciò che facciamo, ad allontanarci dal nostro desiderio soggettivo e dai nostri principi etici.Queste considerazioni riflettono una modalità operativa che ha prodotto nel tempo con la visione organicistica del soggetto umano (la psiche ridotta a cervello), operatori che sono costretti, spesso non coscientemente, ad identificarsi con la  catena produttiva che eroga servizi alla persona. L’utente psichiatrico diventa un malato, privato di diritti e responsabilità, una non-persona con la quale é impossibile, anzi addirittura in talune strutture é sconsigliato instaurare relazioni. Quando poi, in esileranti riunioni, ci viene riferito che il “tal ospite” ha avuto dei miglioramenti, grazie ai colloqui con coloro che ci spingono ad applicare nel nostro lavoro una logica di mero contenimento, il paradosso diviene stritolante. I professionisti del disagio, dati alla mano, grafici e power point ci illustrano chi sono le persone con le quali noi condividiamo la quotidianità…. e loro due ore al mese se va bene.Dopo aver ridotto ogni possibilità critico/soggettiva degli ospiti all’assunzione passiva della terapia, sembra che vi sia la necessità di strutturare un’altro passaggio che questa volta riguarda noi operatori: hanno bisogno del nostro consenso e, per far sì che questo effetto scaturisca senza sbavature,  ci viene richiesta un’identificazione acritica al mansionario che ci viene affidato Invece di costruire una rete in cui le varie figure professionali forniscono un tessuto connettivo per l’ospite nel quale, al limite, il farmaco ha valenza di supporto, gli operatori, ingabbiati nella logica del discorso medico psichiatrico (psicofarmaci! non parole), sono ridotti alla stregua del farmaco.Ritenere gli operatori erogatori di mansioni che suppliscono le supposte incapacità della persona/utente significa inserire la relazione in un quadro meramente assistenziale/ergonomico, ossia in una scala valoriale in cui ciò che conta é soltanto la mera funzionalità della “macchina sociale”, poiché la produttività é il solo parametro valido nelle società a capitalismo avanzato (anche se al sociale del capitalismo toccano solo gli avanzi).Non siamo strumenti erogatori di funzionalità sistemico-ergonomiche, né tantomeno  esecutori di un pensato belle pronto, ma complessità disponibili all’altrui complessità; ascoltatori dell’angoscia degli ospiti delle nostre strutture e anche, per non far confusione, delle nostre stesse angosce.Se nel contesto produttivo per fare una materia particolare occorre partire da un materiale generico e informe ( per fare un tavolo occorre il legno) nel contesto sociale è la particolarità che costituisce l’insieme: il paradosso è il nostro pane. Non é il cane che muove la coda, ma bensì la coda a muovere il cane. Seguendo ancora questa metafora, pur non essendoci più un padrone vero e proprio, poiché é semplicemente il capitalismo a dettare i tempi costringendoci ad esere contemporaneamente  produttori e consumatori , o se si vuole padrone e proletario, non ha più molto senso abbaiare la differenza in faccia a chi non vuole capire, ma almeno non scodinzoliamo al sistema.    CONCLUSIONE Per quanto complesse siano le tematiche inerenti la scelta di fare un lavoro come il nostro,alle quali si aggiungono quelle del lavoro di gruppo, le possibili manipolazioni degli utenti e gli strumenti spesso inadeguati che i finanziamenti ci offrono, dobbiamo avere la forza e la lucidità, per comprendere che la soluzione non può essere la chiusura all’interno del ruolo che ci viene affidato dal mansionario.Il personale addetto alle pulizie, l’infermiere, l’educatore, l’operatore, passano molto più tempo con gli ospiti di uno psichiatra o di uno psicologo, ma il  mansionario gli lascia  pochissimi varchi per approfondire o instaurare una relazione e li rende mero braccio operante.Sembra poi vi sia la volontà di non far scomparire l’utenza, cosa che dovrebbe essere il fine ultimo di qualsiasi servizio, ma di mantenerla cristallizzata nella situazione in cui la si conosce o al limite di nasconderla alla società. Le persone sono ingabbiate in diagnosi croniche e rinnovabili, impossibilitate ad uscire da strutture che funzionano da parcheggio, a considerare la loro “malatttia” transitoria come tutte le altre. Agli ospiti delle strutture psichiatriche viene negato anche l’immaginario e noi operatori li aiutiamo a passare meglio possibile il tempo che intercorre tra l’internamento e il trasferimento in un r.s.a che li aspetta alla soglia della vecchiaia e della non autosufficienza.In un quadro di questo tipo, “psichiatrici” e “marginali” hanno solo la “libertà” di scambiarsi queste due diagnosi e noi operatori, solamente quella di aiutarli a capire che la società ha bisogno di sentirsi normale…magra consolazione.                                                  

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