Muore in reparto psichiatrico, aveva polsi e caviglie legati.

Questa è una dolorosa dimostrazione della vera funzione della psichiatria, semplicemente un ulteriore esercito a disposizione del potere costituito…

Francesco mastrogiovanni
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Gio, 13/08/2009 – 18:03
autore: anarchico

da Liberazione del 13 agosto 2009
di Daniele Nalbone
Francesco Mastrogiovanni è morto legato al letto del reparto
psichiatrico dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania alle 7.20 di
martedì 4 agosto. Cinquantotto anni, insegnante elementare originario di
Castelnuovo Cilento, era, per tutti i suoi alunni, semplicemente "il
maestro più alto del mondo". Il suo metro e novanta non passava
inosservato. Inusuale fra la gente cilentana. Così come erano fuori dal
comune i suoi comportamenti, «dolci, gentili, premurosi, soprattutto
verso i bambini» ci racconta la signora Licia, proprietaria del
campeggio Club Costa Cilento. E’ proprio lì che la mattina del 31 luglio
decine di carabinieri e vigili urbani, «alcuni in borghese, altri armati
fino ai denti, hanno circondato la casa in cui alloggiava dall’inizio di
luglio per le vacanze estive». Uno spiegamento degno dell’arresto di un
boss della camorra per dar seguito a un’ordinanza di Trattamento
Sanitario Obbligatorio (competenza, per legge, solo dei vigili urbani)
proveniente dalla giunta comunale di Pollica Acciaroli.
Oscuri i motivi della decisione: si dice per disturbo della quiete pubblica.
Fonti interne alle forze dell’ordine raccontano di un incidente in cui,
guidando contromano, alcune sere prima, avrebbe tamponato quattro
autovetture parcheggiate, «ma nessun agente, né vigile, ha mai
contestato qualche infrazione e nessuno ha sporto denuncia verso
l’assicurazione» ci racconta Vincenzo, il cognato di Francesco.
Mistero fitto, quindi, sui motivi dell’"assedio", che getta ovviamente
nel panico Francesco.
Scappa dalla finestra e inizia a correre per il villaggio turistico,
finendo per gettarsi in acqua. Come non bastassero carabinieri e vigili
urbani «è intervenuta una motovedetta della Guardia Costiera che
dall’altoparlante avvertiva i bagnanti: "Caccia all’uomo in corso"»
racconta, ancora incredula, Licia. Per oltre tre ore, dalla riva e
dall’acqua, le forze dell’ordine cercano di bloccare Francesco che,
ormai, è fuori controllo. «Inevitabile » commenta suo cognato «dopo
quanto gli è accaduto dieci anni fa».
Il riferimento è a due brutti episodi del passato «che hanno distrutto
Francesco psicologicamente» spiega il professor Giuseppe Galzerano, suo
concittadino e carissimo amico, come lui anarchico. Il 7 luglio 1972
Mastrogiovanni rimase coinvolto nella morte di Carlo Falvella,
vicepresidente del Fronte universitario d’unione nazionale di Salerno:
Francesco stava passeggiando con due compagni, Giovanni Marini e Gennaro
Scariati, sul lungomare di Salerno quando furono aggrediti, coltello
alla mano, da un gruppo di fascisti, tra cui Falvella. Il motivo
dell’aggressione ce la spiega il professor Galzerano: «Marini stava
raccogliendo notizie per far luce sull’omicidio di Giovanni, Annalisa,
Angelo, Francesco e Luigi, cinque anarchici calabresi morti in quello
che dicono essere stato un incidente stradale nei pressi di Ferentino
(Frosinone) dove i ragazzi si stavano recando per consegnare i risultati
di un’inchiesta condotta sulle stragi fasciste del tempo».
Carte e documenti provenienti da Reggio Calabria non furono mai
ritrovati e nell’incidente, avvenuto all’altezza di una villa di
proprietà di Valerio Borghese, era coinvolto un autotreno guidato da un
salernitano con simpatie fasciste.
Sul lungomare di Salerno, però, Giovanni Marini anziché morire, uccise
Falvella con lo stesso coltello che questi aveva in mano.
Francesco Mastrogiovanni fu ferito alla gamba. Nel processo che seguì,
Francesco venne assolto dall’accusa di rissa mentre Marini fu condannato
a nove anni.
Nel 1999 il secondo trauma. Mastrogiovanni venne arrestato «duramente,
con ricorso alla forza, manganellate, e calci» spiega il cognato
Vincenzo, per resistenza a pubblico ufficiale. Il motivo? Protestava per
una multa. In primo grado venne condannato a tre anni di reclusione dal
Tribunale di Vallo di Lucania «grazie a prove inesistenti e accuse
costruite ad arte dai carabinieri». In appello, dalla corte di Salerno,
pienamente prosciolto. Ma le botte prese, i mesi passati ai domiciliari
e le angherie subite dalle forze dell’ordine lasciano il segno nella
testa di Francesco.
«Da allora viveva in un incubo» racconta Vincenzo fra le lacrime.
«Una volta, alla vista dei vigili urbani che canalizzavano il traffico
per una processione, abbandonò l’auto ancora accesa sulla strada e fuggì
per le campagne. Un’altra volta lo ritrovammo sanguinante per essersi
nascosto fra i rovi alla vista di una pattuglia della polizia ». Eppure
da quei fatti Mastrogiovanni si era ripreso alla grande, «tanto da
essere diventato un ottimo insegnante elementare», sottolinea l’amico
Galzerano, «come dimostra il fatto che quest’anno avrebbe finalmente
ottenuto un posto di ruolo, essendo diciottesimo nella graduatoria
provinciale».
Era in cura psichiatrica ma si stava lasciando tutto alle spalle. Fino
al 31 luglio.
Giorno in cui salì «di sua volontà» sottolinea Licia del campeggio Club
Costa Cilento «su un’ambulanza chiamata solo dopo averlo lasciato
sdraiato in terra per oltre quaranta minuti una volta uscito
dall’acqua». Licia non potrà mai dimenticare la frase che pronunciò
Francesco in quel momento: guardandola, le disse: «Se mi portano
all’ospedale di Vallo della Lucania, non ne esco vivo». E così è stato.
Entrò nel pomeriggio di venerdì 31 luglio per il Trattamento Sanitario
Obbligatorio. Dalle analisi risultò positivo alla cannabis. La sera
stessa venne legato al letto e rimase così quattro giorni. La misura non
risulta dalla cartella clinica, ma è stata riferita ai parenti da
testimoni oculari. E confermata dal medico legale Adamo Maiese, che ha
riscontrato segni di lacci su polsi e caviglie della salma durante
l’autopsia. Legato al letto per quattro giorni, quindi. Fino alla morte
sopravvenuta secondo l’autopsia per edema polmonare.
Sulla vicenda la procura di Vallo della Lucania ha aperto un’inchiesta e
iscritto nel registro degli indagati i sette medici del reparto
psichiatrico campano che hanno avuto in cura Mastrogiovanni. Intanto
oggi alle 18, nel suo Castelnuovo Cilento, familiari, amici e alunni
porgeranno l’ultimo saluto al "maestro più alto del mondo".

Quello che segue è il Comunicato del primo quotidiano e social network di Psichiatria, AipsiMed,  a cura di Enzo Spatuzzi per l´Associazione Italiana Psichiatri, in seguito alla morte di Francesco Mastrogiovanni, detto Franco, e riabilitato dal testo che segue,  addirittura dal titolo di professore, reale.

Un pochino mi sento anch´ io partecipe dell´emersione della
notizia, laddove a Ferragosto è stato tutto un frullare nelle carceri,
di personalità e persone, con i Centri di Identificazione in
ribollimento e certe Corsie dimenticate, quelle che dovrebbero essere
di prevenzione e cura e sono di controllo e per sedare, a volte fino
alla morte, proprio come nel nuovo articolo dove si chiede "Perchè la Salute Mentale è una priorità globale? ", con tanto di punto interrogativo. Nel testo datato 17 agosto, Enzo Spatuzzi conclude con un "
Che Dio ci perdoni.Tutti." Quì , pongo io il punto interrogativo, al
perdono, a chi lo distribuisce, con disinvoltura e maestria. Grazie in
ogni caso a chi ha sollevato il Caso e si è posto degli interrogativi e
non si ferma.

Doriana Goracci

Comunicato dell´AipsiMed sulla morte del prof. Franco Mastrogiovanni nel Spdc di Vallo della Lucania

Vorrei aggiungere ai tanti
pervenuti in questi giorni anche un commento altro, il mio, condito di
qualche riflessione riguardante la tragica e disperata morte del
maestro, insegnante, Franco Mastrogiovanni, avvenuta all´interno del
Servizio di Diagnosi e Cura Psichiatrico di Vallo della Lucania (Sa).

Dei drammatici eventi tutti coloro che sono addentro alle cose
dell´assistenza psichiatrica, anche perché puntualmente aggiornati da
AIPSIMED, sono oramai al corrente, ragion per cui non vi tornerò. Ma
certamente è bene fare anche un po´ l´Avvocato del Diavolo in questo
che pare già esser connotato come un processo scontatamente sommario ai
sette dirigenti medici.

Stavolta, contrariamente all´iconografia ufficiale, questo Diavolo vuol
essere anche un buon diavolo, provando a essere persino equilibrato in
un dibattito processuale che appare senza un contenzioso dibattimentale
di tipo etico e culturale. Ma il Diavolo oggi parlerà da un angolo
visuale un po´ spostato, magari defilato, provando tuttavia ad
allargare maggiormente orizzonti pur di andare a rintracciare cause
anche remote che possono stare dietro e aver persino causato la morte
di Mastrogiovanni.

I colleghi quando si laurearono in medicina e chirurgia pensavano che
"da grandi" avrebbero fatto i medici. I colleghi dopo la
specializzazione in psichiatria hanno affinato la loro preparazione
anche intima, effettuando complessi e complicati percorsi formativi
pensando che da grandi avrebbero fatto gli psichiatri. Nulla di tutto
questo. Sono stati sì assunti dall´azienda sanitaria locale, ma
arruolati con i compiti di psicopolizia, quella funzione che dai
manicomi in poi identifica ancora oggi la tipologia dell´intervento
psichiatrico in specie per le psicosi maggiori.

Di questo sono al corrente anche i tutori dell´ordine che ben
volentieri si fanno affiancare dagli psichiatri territoriali nella
"cattura" delle persone che appaiono di pubblico scandalo e demandano
solo agli psichiatri dei reparti psichiatrici la custodia di quelle
stesse persone e prima ancora che sia stata effettuata una diagnosi
precisa sulle loro vere condizioni clinico-psicopatologiche.

Non solo, ma quegli stessi psichiatri devono anche far passare nel più
breve tempo possibile lo stato psichico che potrebbe aver sotteso
condotte antisociali. E con che? Con gli psicofarmaci in primis, con il
controllo costante da parte di loro stessi e degli infermieri
collaboratori e, estrema ratio, con la contenzione.

Insomma gli psichiatri vanno in guerra all´attacco e non in difesa,
combattendo una battaglia che mai avrebbero voluto condividere e,
soprattutto, vanno in campo con armi giocattolo finendo per tradire
ogni giuramento di Ippocrate. Ma si può?

Uno psichiatra è oggi messo nelle condizioni di non potere attendere la
trasformazione, anche assai favorevole, di uno stato psichico, ma
dev´essere un leguleio conoscitore di quanti minuti bastano per tenere
contenuta una persona. Deve servire, obbedire e combattere senza
disporre neppure di un test sull´alcolemia di cui è portatore la
persona a loro "affidata", ma deve subito sedare con i gravissimi
effetti in termini di interazionepotenziamento dell´alchimia
alcoolpsicofarmaci. Non può subito effettuare un elettrocardiogramma
alla persona che gli portano, visto che per la trafelatezza e la
concitazione dell´intervento, che la persona sia affetta da ipertrofia
del ventricolo sinistro (come in Mastrogiovanni) al mandante del
ricovero pare essere l´ultimo dei suoi problemi. Si dirà: ma per un
medico questo è essenziale! E´ vero. Ma quanti collaborano a che la
persona agitata se ne stia buona buona su un lettino a praticare tutte
le indispensabili analisi emato-cliniche e gli accertamenti diagnostici
strumentali? Bisogna trovarcisi in quelle bolge dantesche chiamate
pronti soccorso all´interno dei quali afferisce tutta un´umanità
dolente (non solo nel corpo) ed uno sparuto di medici annichiliti
dall´angoscia relativa all´improbo compito tenta di rendersi utile
nella sofferenza senza finire sotto inchiesta.

Non ci si vuole dilungare troppo e, si sa, l´unica soluzione per i
medici, per gli psichiatri, consiste nell´attenersi rigidamente a ciò
che attiene all´intervento sanitario delegando ad altre figure ed
istituzioni il controllo del male sociale.

Pare che Mastrogiovanni prima di entrare in S.P.D.C. abbia urlato che
se finiva in psichiatria sarebbe morto. Non sarebbe stato meglio per
lui, oltre che per la sua storia anche politica, una permanenza breve e
solo per accertamenti in una struttura solo investigativa e non
sanitaria e rimandare ad altri momenti l´acquisizione psicodiagnostica
delle cause delle sue angosce di sempre, magari con la costante
presenza di uno psichiatra chiamato in consulenza e solo per
proteggerlo e non per fargli da Caronte o da suo persecutore più o meno
occulto?

La risposta solo è rintracciabile negli intestini d´una legge di
assistenza psichiatrica che non s´è mai voluta interrogare sul suo
mandato e sulla sua vera funzione.

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Enzo Spatuzzi
17 agosto 2009

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psichiatri giù le mani dalle nostre esistenze!

Psichiatri giù le mani dalle nostre esistenze !!! Dall’1 al 4 aprile si terrà a Firenze un convegno internazionale di psichiatria organizzato dal WPA (World Psychiatric Association), durante il quale psichiatri, esponenti delle multinazionali del farmaco e associazioni di familiari faranno il punto della situazione sui trattamenti attualmente in uso per i cosiddetti “disturbi mentali” e pianificheranno nuovi sistemi di intervento a livello mondiale.Leggendo il programma di questo mega-congresso ci si rende subito conto di come oggi la falsa scienza psichiatrica abbia notevolmente ampliato il proprio campo d’intervento.Invadendo le nostre esistenze, sminuisce le sofferenze umane riducendole a disturbi biochimici della mente, sempre più interpretati come patologie genetiche del soggetto.Se è vero che assistiamo ad una sistematica diffusione delle disagio, è vero anche che le cause vanno ricercate nella società in cui viviamo e nello stile di vita che ci viene imposto che esige sempre più efficienza e concorrenzialità. In cambio ci viene offerta una precarietà sempre più diffusa che genera senso di inadeguatezza e ostacola prospettive di emancipazione.Come risposta a ciò abbiamo la medicalizzazione di quelli che sono gli eventi naturali della vita e di quei comportamenti non conformi agli standard sociali. Le reazioni dell’individuo al carico di stress cui si trova sottoposto vengono interpretate quali sintomi di malattia e le risposte che riceviamo sono sempre dello stesso tipo: diagnosi-etichetta e cura farmacologica.Noi tutti scontiamo il peso di questa odierna esondazione psichiatrica, che ha portato alla medicalizzazione delle nostre vite dalla crescita – attraverso malattie create ad hoc per bambini vivaci – fino alla vecchiaia, intromettendosi fin nella nostra sfera più privata laddove pretende di “curare” il nostro approccio al cibo, alla sessualità e alla sofferenza.Alcuni ambiti di ingerenza della salute mentale derivano dal passato: pensiamo alle nuove forme di “isteria femminile”, legate al ciclo mestruale, alla gravidanza, al parto e alla menopausa, come se i problemi dell’essere donna oggi fossero legati alla biologia. Altri settori di intervento sono invece più nuovi come l’inquietante psichiatrizzazione dell’infanzia e il ritorno in auge dell’etnopsichiatria.In un sistema economico e sociale basato sulla disuguaglianza e sulla discriminazione, espliciti bisogni, come quello dell’autodeterminazione, dell’integrazione, del lavoro e della casa, vengono considerati e trattati come disturbi della mente.In Italia, nonostante la tanto decantata chiusura dei manicomi, questi continuano ad esistere nei servizi psichiatrici territoriali in cui si riscontrano gli stessi meccanismi lesivi delle libertà individuali (etichettamento, esclusione, ecc) e le medesime pratiche coercitive (TSO, costrizione ai letti, farmaci come nuove camicie di forza, pratiche aberranti come l’elettroshock). Sempre pronta a pubblicizzare nuove ed inesistenti malattie allo scopo di allargare il proprio bacino d’utenza per arricchire le tasche delle multinazionali farmaceutiche, la psichiatria serve ad arginare qualsiasi critica sociale e a normalizzare quei comportamenti ritenuti “pericolosi” poiché non conformi al mantenimento dello status quo, al fine di estendere il controllo sociale e la possibilità di intervento normalizzante da parte delle istituzioni. 

Siamo qui per contestare ancora una volta il perpetuarsi di tutte le pratiche psichiatriche e per smascherare l’interesse economico che si cela dietro l’invenzione di nuove malattie per promuovere la vendita di nuovi farmaci.

Non lasciamo in pace chi porta avanti da più di un secolo una guerra quotidiana contro la libertà individuale!

collettivo antipsichiatrico Violetta Van Gogh – Firenze    [www.violetta.noblogs.org]
collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud – Pisa             [www.artaudpisa.noblogs.org]

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aboliamo l’elettroschock!

È del 17 marzo 2009 un articolo uscito su La Repubblica in cui si mette
in risalto come in merito all’applicazione della terapia
elettroconvulsivante la Regione Toscana applichi «regole più severe» a
tutela del paziente.
Effettivamente la Regione Toscana si è distinta, insieme ad altre, nella
volontà di porre un limite all’uso della TEC. Con la legge regionale
n.39 del 18 ottobre 2002 «in materia di applicazione della terapia
elettroconvulsivante, la transorbitale e altri simili interventi di
psicochirurgia» venivano, infatti, poste alcune restrizioni all’uso
dell’elettroshock. Nell’articolo 3 commi 2 e 3 si stabiliva che la TEC
può essere praticata solo con il «consenso libero, consapevole,
attuale e manifesto» del paziente e che a tale fine lo psichiatria
deve fornire esaurienti informazioni sugli effetti collaterali e sui
possibili metodi alternativi. Se ne sconsigliava inoltre l’utilizzo su
minori, anziani oltre i sessantacinque anni e donne in stato di
gravidanza e si vietava l’uso di lobotomia prefrontale e transorbitale e
di altri simili interventi di psicochirurgia. Al comma 4 si stabilivano
inoltre apposite linee guida sull`utilizzo dell’elettroshock e le
procedure relative al consenso e all`autorizzazione adottate dalla
Giunta regionale.
La Corte Costituzionale ha abolito nel dicembre 2002 questi passaggi
(commi 2 e 3 perché la Giunta Regionale non ha il diritto di dare
indicazioni su singole terapie, comma 4 per illegittimità
costituzionale). Rimanevano gli articoli 1 e 2 e l’articolo 4 in cui,
«considerata la non univocità dei dati di letteratura e le
discordanze che caratterizzano il dibattito sulla TEC nella
comunità scientifica», si avviava una Commissione Consiliare competente
a svolgere un’azione di monitoraggio, sorveglianza e valutazione.
Il fatto che la Regione operi un monitoraggio sulla terapia
elettroconvulsivante e sottolinei l’esigenza di un maggiore consenso
informato è sicuramente apprezzabile, ma la spinosa questione
dell’elettroshock rimane tutt’altro che risolta.
Da anni lottiamo affinché il consenso informato, previsto legalmente in
materia psichiatrica, venga effettivamente garantito al paziente – che
ha il diritto di sapere gli effetti collaterali ed i rischi in cui
incorre sottoponendosi a tale trattamento. Problema che si ripropone in
tutti gli ambiti dell’istituzione psichiatrica, primo fra tutti quello
delle terapie farmacologiche nel quale vige la più totale
disinformazione.

Ma soprattutto, al di là del consenso informato, rimangono la brutalità
di questa tecnica, la sua totale mancanza di validità scientifica e
l’assenza di un valore terapeutico comprovato.
I meccanismi di azione della TEC non sono noti. Per la psichiatria
«rimane irrisolto il problema di come la convulsione cerebrale provochi
le modificazioni psichiche» e «non è chiaro quali e in che modo queste
modificazioni (dei neurotrasmettitori e dei meccanismi recettoriali)
siano correlate all’effetto terapeutico» (G. B. Cassano, Manuale di
Psichiatria). Ma per chi subisce tale trattamento i danni cerebrali sono
ben evidenti e possono essere rilevati attraverso autopsie e variazioni
elettroencefalografiche anche dopo dieci o venti anni dallo shock.
Migliorandone le garanzie burocratiche, così come introducendo alcune
modifiche nel trattamento (anestesia totale e farmaci miorilassanti che
impediscono le contrazioni muscolari in precedenza diffuse a tutto il
corpo con la conseguente rottura di denti ed ossa) non si cambia la
sostanza della TEC. L’elettroshock deve essere abolito!
Ricordiamo inoltre che, al di là dei buoni propositi di alcune singole
regioni, la situazione a livello nazionale verte su tutt’altre posizioni.
Se nel 1996 una circolare dell’allora Ministro della Sanità R. Bindi
definiva l’elettroshock «presidio terapeutico di provata efficacia»,
nel mese di marzo dello scorso anno usciva una petizione del Congresso
Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia, appoggiata
dall’AITEC (Associazione Italiana Terapia Elettroconvulsivante) per
aumentare i centri clinici autorizzati a praticare la TEC con
l’obbiettivo di arrivare ad almeno un servizio per ogni milione di
abitante in tutte le regioni d’Italia. È inoltre di ieri un allucinante
articolo, pubblicato al corriere della sera, che pubblicizza uno studio
del Policlinico di Milano in cui si paragona il cervello ad una pila:
«se il cervello fosse come una pila, la depressione potrebbe essere
vista come se il livello della batteria fosse basso. Perché allora non
ricaricare un cervello gravemente depresso con la corrente?»
Ci teniamo a ribadire che l’elettroshock è una disumana violenza e un
attacco all’integrità psicologica e culturale dell’individuo che lo
subisce. Insieme ad altre comuni pratiche della psichiatria come il TSO
(Trattamento Sanitario Obbligatorio), la terapia elettroconvulsivante è
un esempio se non l’icona della coercizione e dell’arbitrio esercitato
dalla psichiatria e dalla società nei confronti di chi non vuole
normalizzarsi alle sue regole.

Il collettivo antipsichiatrico Antonino Artaud-pisa

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Errata corrige per il 4 aprile No W.P.A!

 La psichiatria è la vera malattia!

Dall’ 1 al 4 aprile 2009 a Firenze si terrà un convegno internazionale
organizzato dal WPA (World Psychiatric Association)
(il sito del WPA è www.wpanet.org e quello con il programma è
www.wpa2009florence.org )
dove psichiatri, esponenti delle multinazionali del farmaco e
associazioni dei familiari
discuteranno dei molteplici ambiti dell’intervento psichiatrico:
infanzia, donne, psichiatria genetista, tossicodipendenza,
etnopsichiatria, sessualità, salute mentale e nuovi farmaci ecc…
Come collettivi antipsichiatrici saremo presenti  la mattina del 4 aprile, appuntamento alle 11 in via degli Avelli( la strada di fianco a p.zza S. Maria Novella) e faremo un volantinaggio itinerante, per contestare il
perpetuarsi di tutte le pratiche psichiatriche e per smascherare
l’interesse economico che si cela dietro l’invenzione di nuove malattie
per promuovere la vendita di nuovi farmaci.
Nel pomeriggio saremo presenti al corteo contro il piano strutturale e
contro lo sgombero del csa nEXt-emerson (partenza alle 15 da piazza
S.Marco)
con uno spezzone antipsichiatrico.
Non lasciamo in pace chi porta avanti da più di un secolo una guerra
quotidiana contro la libertà individuale! Psichiatri giù le mani dalle
nostre esistenze!!!!
Siete tutt* invitati a partecipare.

collettivo antipsichiatrico Violetta Van Gogh-Firenze
collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
Telefono Viola di Milano T-28

Labratorio contro la repressione

Circolo anarchico "Il Porcospino"

 

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operatore don’t cry

INTRODUZIONE  Due righe per chiarire il senso di questo scritto. In anni di collettivo abbiamo incontrato  persone legate al circuito psichiatrico in varie maniere, dal reparto ospedaliero, alle case famiglia o centri diurni, fino alle vere e proprie strutture residenziali.Le testimonianze della vita all’interno di una struttura, salvo rari casi e a posteriori, provengono per la maggior parte dai racconti degli operatori, alcuni membri del collettivo stesso, altri persone conosciute nel corso del tempo. Per questi motivi, ci preme portare avanti una riflessione sull’importanza del ruolo che può assumere chi lavora nel settore psichiatrico e su come un modo di porsi, piuttosto che un altro, possa contribuire a cambiare, sia la semplice quotidianità dell’utente, sia i dispositivi che costituiscono la struttura di cui fa parte.Ci sembrava doveroso, vista l’attuale condizione del terzo settore, ormai subordinato completamente a logiche di profitto, di interessi elettorali e di puro controllo sociale, rompere il silenzio, per non lasciare da solo chi usufruisce dei servizi e chi vi lavora…La differenza  all’interno di organizzazioni operanti nel sociale fra chi è preposto al controllo e chi lo subisce si basa sulla storia personale degli individui, sulla loro fortuna o meno e sulla loro capacità  di non deviare da quelle  linee di comportamento che, nella nostra società, caratterizzano una persona integrata ed esente da “patologie mentali”. Pensiamo solamente a quanto potrebbe attualmente essere diversa la nostra esistenza se fossimo nati dall’altra parte del mondo: reclusi in un cpt, morti senza nome in un cantiere edile, vendute a qualche pappone o in fuga da una guerra.. lo stesso principio di casualità regola la nostra stabilità emotiva e la capacità di mantenerla, come d’altronde, la nostra posizione sociale.Tutto questo discorso deriva da ciò che pensiamo dovrebbe essere il “sociale”: una zona temporanea di transito in cui non si “prende in carico” la persona, ma ci se ne prende cura, avendo come obiettivo non la sua conformazione sociale , ma la sua autoderminazione e il suo benessere. Un agire non pregiudiziale da parte degli operatori è l’unico modo per incrinare l’immobilità del dispositivo psichiatrico,dal momento che la quotidianità di una struttura é data da chi la attraversa.Il migliore operatore è quello che sa rendersi inutile!              

OPERATORE DONT CRY: UN POSSIBILE SENSO COMUNE AL NOSTRO OPERARE

 Spesso nelle riunioni a cui partecipiamo (là dove ancora vengono fatte) ci viene sottolineata la valenza fondamentale del gruppo e l’integrazione dei saperi in riferimento alle diverse figure professionali, come se questo fosse un fatto che si sviluppa da sé.Nelle varie figure che abitano il sociale sussistono competenze con mansionari diversi che difficilmente possono integrarsi (cosa hanno in comune uno psicologo e un infermiere, un educatore e uno psichiatra, un assistente sociale e un operatore socio sanitario o assistenziale?). Ebbene esiste uno “strumento” che pone ogni operatore del nostro settore, a prescindere dalla qualifica professionale, come trasversalmente competente rispetto al lavoro con gli ospiti di qualsiasi struttura: l’ascolto.L’ascolto é ciò che valorizza la parola di chi versa in condizione di criticità psico-fisico-sociale, poiché il silenzio accorto di chi ascolta restituisce, almeno in parte, i contenuti del discorso (lamenti, deliri,ecc) di chi é ascoltato al fine di renderlo cosciente e responsabile, in modo non intrusivo e non direttivo, del suo dire e agire. Quindi questo strumento mostra a chi parla l’importanza della sua parola, operando una prima manovra essenziale della cura; non è l’effetto rapido quello che si causa, ma attraverso la parola si dà la possibilità a chi si trova in difficoltà  di incontrare la fissità della sua ripetizione, consentendo così un primo sblocco.L’ascolto inoltre strappa il rapporto tra operatore e utente all’assistenzialismo e alla passività, ponendo le basi di una relazione diversa, in cui l’utente non é più solo vittima non cosciente del suo lamento- delirio, ma ne è anche responsabile non colpevole, poiché é  quella inconsapevolezza che l’ascolto vuole colpire. Ma la realtà  all’interno del lavoro sociale, nel quale abbiamo deciso di impegnarci oltre che impiegarci, ha sempre più a che fare con il discorso medico/psichiatricoche fonda la cura sul farmaco e su una base fenomenologica e osservativa.La riduzione della psiche a cervello, epitaffio tombale che sancisce la morte del soggetto umano sulle forche caudine della psichiatria positivista, condensa patologicamente in sé il trionfo dello psicofarmaco per ogni evenienza in barba ai rapporti umani tra esseri senzienti.  La logica psichiatrica, si configura falsamente come criterio neutro, ma di fatto é al servizio delle case farmaceutiche che fanno degli utenti dei nostri servizi galline dalle uova d’oro. Il metodo medico/osservativo che indaga i processi mentali é limitante, poiché interpreta  comportamenti e cognizioni come sintomi di patologie, misconoscendo il  potere introspettivo e analizzante della parola. Questa metodologia coglie il fenomeno nella sua frazione minimalista, ma non il soggetto nella sua complessitàOgnuno di noi può essere un buon operatore, se accosta alle capacità personali e professionali un  ascolto effettivo, non pregiudiziale. Altrimenti  il tempo per noi operatori non sarà altro che attesa di burn-out, categoria anche questa necessaria ai criteri dominanti del terzo settore  per coprire  le proprie carenze formative e strutturali.   OPERATORI SOCIALI O “EDUCATORI EMBEDDED” AL SISTEMA PSICHIATRICO? (“embedded” cioè incassare, inserire; termine usato per i giornalisti di guerra americani ai quali vengono somministrati programmi psicologici/abilitativi alle logiche di guerra che non prevedono il contraddittorio e la divulgazione di notizie scomode)  Il mestiere dell’educatore/operatore sociale nasce e si sviluppa, in particolare, negli anni ’70 quando il sistema prevalente di educazione scolastica e professionale viene messo in crisi dagli sconvolgimenti causati dai moti del decennio precedente.Nel 1978 Basaglia sferra un duro colpo alla cultura psichiatrica, attraverso la legge 180, aprendo i reparti e denunciando le orrende condizioni di vita degli internati. Questo fu un primo passo di cui non neghiamo l’importanza, ma ci preme ricordare che da ormai più di quarant’anni non solo siamo fermi, ma stiamo regredendo molto rispetto ai presupposti dello spirito basagliano.Prima di tutto, la legge 180 ha il limite di non intaccare ciò che sta alla base del cosiddetto pregiudizio psichiatrico: si continua a considerare gli utenti dei “malati di mente”, la psichiatria organicista come l’unico metodo di cura valido e una reale possibilità di autonomia e reinserimento della persona nella vita sociale è ancora un lontano miraggio.E’ vero infatti che i manicomi sono stati smantellati, nel senso che non vengono più ricoverate altre persone,ma molti degli internati rimangono ancora oggi tali, perchè le case- famiglia, teoricamente strutture intermedie fra l’ospedalizzazione e la libertà,sono pensate e gestite in modo tale che nessuno riesce a svincolarsi e a vedere un termine a questo percorso.Permane inoltre, il trattamento sanitario obbligatorio, procedura che dovrebbe essere d’urgenza, ma che viene applicata troppo spesso in tutta quella serie di situazioni che poi diventano la normalità e la norma. Come abbiamo già detto, farmaci e procedure d’urgenza coercitive sopperiscono ad una buona qualità del lavoro sociale: senza una relazione di cura le persone vengono contenute fino al ripetersi della “crisi” successiva, cui si risponderà con gli stessi mezzi, avviandole così ad un percorso di cronicizzazione senza fine.“Perciò la critica va portata alla radice, al giudizio psichiatrico.Infatti, definire malata di mente  una persona implica che tutto quello che fa, dice,sente, viene considerato privo di senso.L’uomo privato della produzione di senso e dell’attribuzione di responsabilità non esiste più.In un mondo dove ognuno è solo con il proprio dolore.” ( G.Antonucci,”Critica al giudizio psichiatrico”).L’essere umano é caratterizzato dalla sua unicità e irripetibilità, dall’essere soggetto all’incertezza, dal suo costante divenire. E sono proprio queste peculiarità umane a costituire un ostacolo all’esigenze della scienza che, per suo statuto, ha bisogno di dati certi ,verificabili, ripetibili.Per questo motivo, quando le necessità del discorso scientifico vengono applicate alla persona si configurano sempre come perverse, rendendo i soggetti cavie da laboratorio.Il risultato é che ogni specificità viene appiattita e qualità propriamente umane, quali la tolleranza alla diversità,  la creatività, l’immaginazione vengono annientate dall’ottusa necessità di adeguazione e bieca uguaglianza.Su quest’ultimo punto si gioca il fattore differenziale tra quegli operatori che  si adeguano al sistema, strutturando il proprio agire “educativo” in conformità alle esigenze dominanti, e chi, invece, cerca le forme possibili per sottrarsi a queste esigenze (strategie etiche).Lavorare così , sul filo di lana, tra il mansionario che non lascia spazio e il desiderio che sentiamo nel nostro lavoro di tessere reti di relazioni funzionali agli ospiti e non all’azienda, può causare ripercussioni per ognuno, che vanno dal burn-out, all’angoscia, fino alle varie forme di crisi di panico.Questi effetti che la psicopatologia attribuisce, con leggerezza mirata, a derive mentali, sono in realtà forme di eccesso di adattamento al discorso imperante poiché costringono, attraverso una mancanza di coscienza di ciò che facciamo, ad allontanarci dal nostro desiderio soggettivo e dai nostri principi etici.Queste considerazioni riflettono una modalità operativa che ha prodotto nel tempo con la visione organicistica del soggetto umano (la psiche ridotta a cervello), operatori che sono costretti, spesso non coscientemente, ad identificarsi con la  catena produttiva che eroga servizi alla persona. L’utente psichiatrico diventa un malato, privato di diritti e responsabilità, una non-persona con la quale é impossibile, anzi addirittura in talune strutture é sconsigliato instaurare relazioni. Quando poi, in esileranti riunioni, ci viene riferito che il “tal ospite” ha avuto dei miglioramenti, grazie ai colloqui con coloro che ci spingono ad applicare nel nostro lavoro una logica di mero contenimento, il paradosso diviene stritolante. I professionisti del disagio, dati alla mano, grafici e power point ci illustrano chi sono le persone con le quali noi condividiamo la quotidianità…. e loro due ore al mese se va bene.Dopo aver ridotto ogni possibilità critico/soggettiva degli ospiti all’assunzione passiva della terapia, sembra che vi sia la necessità di strutturare un’altro passaggio che questa volta riguarda noi operatori: hanno bisogno del nostro consenso e, per far sì che questo effetto scaturisca senza sbavature,  ci viene richiesta un’identificazione acritica al mansionario che ci viene affidato Invece di costruire una rete in cui le varie figure professionali forniscono un tessuto connettivo per l’ospite nel quale, al limite, il farmaco ha valenza di supporto, gli operatori, ingabbiati nella logica del discorso medico psichiatrico (psicofarmaci! non parole), sono ridotti alla stregua del farmaco.Ritenere gli operatori erogatori di mansioni che suppliscono le supposte incapacità della persona/utente significa inserire la relazione in un quadro meramente assistenziale/ergonomico, ossia in una scala valoriale in cui ciò che conta é soltanto la mera funzionalità della “macchina sociale”, poiché la produttività é il solo parametro valido nelle società a capitalismo avanzato (anche se al sociale del capitalismo toccano solo gli avanzi).Non siamo strumenti erogatori di funzionalità sistemico-ergonomiche, né tantomeno  esecutori di un pensato belle pronto, ma complessità disponibili all’altrui complessità; ascoltatori dell’angoscia degli ospiti delle nostre strutture e anche, per non far confusione, delle nostre stesse angosce.Se nel contesto produttivo per fare una materia particolare occorre partire da un materiale generico e informe ( per fare un tavolo occorre il legno) nel contesto sociale è la particolarità che costituisce l’insieme: il paradosso è il nostro pane. Non é il cane che muove la coda, ma bensì la coda a muovere il cane. Seguendo ancora questa metafora, pur non essendoci più un padrone vero e proprio, poiché é semplicemente il capitalismo a dettare i tempi costringendoci ad esere contemporaneamente  produttori e consumatori , o se si vuole padrone e proletario, non ha più molto senso abbaiare la differenza in faccia a chi non vuole capire, ma almeno non scodinzoliamo al sistema.    CONCLUSIONE Per quanto complesse siano le tematiche inerenti la scelta di fare un lavoro come il nostro,alle quali si aggiungono quelle del lavoro di gruppo, le possibili manipolazioni degli utenti e gli strumenti spesso inadeguati che i finanziamenti ci offrono, dobbiamo avere la forza e la lucidità, per comprendere che la soluzione non può essere la chiusura all’interno del ruolo che ci viene affidato dal mansionario.Il personale addetto alle pulizie, l’infermiere, l’educatore, l’operatore, passano molto più tempo con gli ospiti di uno psichiatra o di uno psicologo, ma il  mansionario gli lascia  pochissimi varchi per approfondire o instaurare una relazione e li rende mero braccio operante.Sembra poi vi sia la volontà di non far scomparire l’utenza, cosa che dovrebbe essere il fine ultimo di qualsiasi servizio, ma di mantenerla cristallizzata nella situazione in cui la si conosce o al limite di nasconderla alla società. Le persone sono ingabbiate in diagnosi croniche e rinnovabili, impossibilitate ad uscire da strutture che funzionano da parcheggio, a considerare la loro “malatttia” transitoria come tutte le altre. Agli ospiti delle strutture psichiatriche viene negato anche l’immaginario e noi operatori li aiutiamo a passare meglio possibile il tempo che intercorre tra l’internamento e il trasferimento in un r.s.a che li aspetta alla soglia della vecchiaia e della non autosufficienza.In un quadro di questo tipo, “psichiatrici” e “marginali” hanno solo la “libertà” di scambiarsi queste due diagnosi e noi operatori, solamente quella di aiutarli a capire che la società ha bisogno di sentirsi normale…magra consolazione.                                                  

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Telefono Violetta

E’ attivo il Telefono Violetta a Firenze , una linea contro gli abusi psichiatrici e i metodi della psichiatria.

A CHI SI RIVOLGE IL TELEFONO: a tutti coloro che subiscono o rischiano di subire la violenza psichiatrica.
CI PROPONIAMO DI: fornire informazioni sui propri diritti alle persone che hanno a che fare con
l’inferno psichiatrico e raccogliere  denuncie di abusi come elettroshock, TSO, massicce somministrazioni di
psicofarmaci
.

055 23 45 268

attenzione!…lavori in corso!

Il telefono per il momento non sarà attivo fino a data da destinare. per contatti, scrivete all’indirizzo: violettavangogh@inventati.org

Telefono Viola di Milano

334/3968947

(mercoledì dalle  17 alle 20)

telviola@ecn.org

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
335 7002669
antipsichiatriapisa@inventati.org

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presentazione citè

Venerdì 6 marzo 2009

al caffè letterario "La Cité" ore 18.00

Borgo S.Frediano n°20 r

presentazione del libro

"Istituzioni post-manicomiali.Dispositivi totalizzanti e risorse di sopravvivenza  nelle strutture intermedie residenziali".

Sarà presente l’autore N. Valentino e la distribuzione completa della casa editrice "Sensibili alle foglie".

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Barelle, i dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione…

FIRENZE
16 gennaio, 2009
ore 21.00
Centro Sociale Le Piagge
Viale Lombardia 1
Nicola Valentino presenta: "BARELLE". I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione.

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autofinanziamento violetta

                  VENERDI’ 12 DICEMBRE 2008:

         SERATA DI AUTOFINANZIAMENTO DEL COLLETTIVO ANTIPSICHIATRICO

         VIOLETTA VAN GOGH !

   CENA BENEFIT +  concerto con gli APUA MATER,

       cyberfolk da Carrara….

  al c.s.a Next Emerson, Via di Bellagio 15. bus 2-28

     

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T.S.O. PER ORDINE PUBBLICO Marzo 08

Altro che 180, altro che democraticizzazione della psichiatria…

Oltre hai già noti servizi psichiatrici territoriali, nati dopo la tanto decantata chiusura dei manicomi, la psichiatria dilaga nella società anche sotto altre forme, rivolta in questo caso a chi gli psichiatri stessi non possono definire “paziente da curare”.

 

Premettendo che per noi nessuno è da curare dalla coercizione psichiatrica, ci sembra comunque ancora meno accettabile il ricorso al Trattamento Sanitario Obbligatorio in caso di sfratto.

Non è la prima volta che capita a Firenze. Già qualche anno fa avevamo denunciato il caso di una donna marocchina sfrattata per morosità, portata via sotto sedativi somministratigli da medici e paramendici del 118 al momento dell’esecuzione dello sfratto stesso perché mostrava segni di forte agitazione! La donna in questione, per giunta, era anche incinta, nonché madre di una bambina piccola con cui sarebbe finita in mezzo a una strada.

 

L’11 gennaio 2008 il T.S.O. è toccato a Franco Bellini, 72 anni,  invalido al 100% di Scandicci, durante lo sfratto, o meglio l’esproprio della sua casa di Scandicci sulla quale dovrà passare la terza corsia dell’autostrada.

I giornalisti indignati, gli psichiatri indignati, ma intanto lui è stato sedato, portato via da una casa di sua proprietà, cariato in ambulanza e ricoverato in un reparto psichiatrico. E tutto questo perché non voleva abbandonare la sua abitazione, i suoi pianoforti, la sua terra, i suoi animali. Sembrerebbero più che legittime le sue rivendicazioni, così come la sua ferma volontà di non lasciare ciò che era suo e a cui era legato. La sua lunga lotta contro la società Autostrade, iniziata già negli anni ’50, visto che l’autostrada stessa passava a un metro da casa sua, si è così conclusa nel peggiore dei modi. Dopo il reparto, all’uomo è stato riservata una camera in albergo, la promessa di un indennizzo, ma solo la promessa, e dei soldi per una nuova casa che corrispondono a circa un terzo del valore della casa abbattuta. Oggi il signor Bellini e l’anziana moglie sono ancora in albergo, ma non più a spese del Comune che si è limitato a pagare fino al 21 febbraio, mentre dei soldi dell’indennizzo non se ne parla proprio. (Per approfondire la storia vedi articoli di seguito allegati). Continue reading

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